Nell’articolo viene proposta una concisa analisi dei limiti metodologici che caratterizzano le discipline sociologiche e che impediscono il passaggio dalla filosofia sociale alla scienza sociale.
Il principale tra questi limiti consiste nella mancata comprensione della differenza esistente tra conoscenza intuitiva e conoscenza sperimentale. Quantunque i risultati raggiunti dalla scienza stiano a dimostrare che solo il metodo galileiano possiede capacità esplicative, la prospettiva aristotelica tuttora influenza la nostra cultura. I moderni cultori di queste discipline non parlano più di Aristotele, ma tutto è aristotelico nelle più accreditate e diffuse concezioni dell’uomo e della società. Permane la considerazione della scienza sociale come conoscenza per dimostrazione, che si ritrova tra l’altro, nello storicismo, nella fenomenologia, nel funzionalismo. Permane l’approccio conoscitivo in termini di “che cosa è?”, il quale vincola la conoscenza al pregiudizio secondo cui i fenomeni potrebbero essere conosciuti «in sé». La ricerca sociale e la ricerca psicologica vengono ancora considerate come analisi di “essenze”, alle quali si tenta di dare una veste metodologica che le legittimi come scientifiche all’interno dei rispettivi linguaggi. Permane la prospettiva secondo cui l’individualità, in quanto assolutamente particolare, non è in linea di principio definibile e non può essere oggetto di scienza. Permane infine la prospettiva dell’“universale per lo più” connessa all’induzione, alla quale si ricollegano molte giustificazioni metodologiche la considerazione della statistica come l’unico metodo utilizzabile nella ricerca sociale.
Il postulato acritico della radicale incompatibilità dei metodi delle scienze naturali rispetto ai fenomeni sociali costituisce una specie di “blocco mentale” che impedisce allo studioso di leggere il “gran libro della natura” sociale. Si tratta della stessa prospettiva aristotelica che ostacolò per due millenni la conoscenza scientifica della natura.