Istruzione e disoccupazione intellettuale in Italia
Premessa: la formazione professionale soffre degli stessi mali della scuola (a tutti i livelli) e come tale non può essere considerata in modo disgiunto da quest’ultima. È un primo punto che non dovrebbe essere sottovalutato. Il secondo punto, che vorrei qui sottolineare, è che i comportamenti sociali (così come quelli individuali) devono essere non solo descritti ma anche, possibilmente, capiti individuandone le cause. Se non si conoscono le cause, come si possono eliminare gli effetti?
E passiamo al problema specifico: come si deve comportare la società di fronte ai giovani laureati ai quali il mercato non fornisce un’occupazione conforme alle loro aspettative? È una domanda alla quale si può rispondere in più modi. Se il paradigma di riferimento è quello del senso comune, la risposta può essere addirittura semplicistica: lo Stato ha conferito il titolo di studio, lo Stato deve dare il lavoro corrispondente al valore legale del titolo di studio, cioè alle aspettative dei giovani che non collimano con le aspettative del mercato.
Ma, definendo meglio il problema, salta subito agli occhi la contraddizione: (1) se si opera in un’economia pluralistica, allora deve valere la compatibilità del titolo di studio col mercato e i giovani, per avere un lavoro, devono attenersi alle regole del mercato; (2) se si opera in un’economia collettivistica, allora deve valere la compatibilità del titolo di studio col piano di produzione (e di consumo) definito dallo Stato e i giovani, per avere un lavoro, devono attenersi alle regole dello Stato che prefigurano qualitativamente e quantitativamente i tipi di professionalità ammessi nel sistema. Altrimenti, nel primo caso verrebbe contraddetta la logica del mercato; nel secondo, la logica della pianificazione.
Si badi bene che il problema in una economia “mista” o, come anche si dice, in un welfare state, non è tanto quello, pure importante, di modificare il rapporto tra interessi privati e interessi pubblici, che viene risolto in modi diversi, a seconda delle diverse culture; ma piuttosto quello di stabilire, per il pubblico e per il privato, gli stessi parametri di efficienza che in sintesi sono quelli espressi dalla teoria delle scelte razionali – parametri che valgono, sul piano teorico astratto, tanto per la logica del mercato quanto per quella della pianificazione. Posti questi parametri di efficienza, la differenza consiste solo nel fatto che nel pluralismo la compatibilità tra le scelte di ciascun soggetto e le scelte di tutti gli altri (che gli economisti chiamano equilibrio) viene raggiunta mediante il mercato, anche se le scelte dei soggetti sono tutte differenti; mentre nel collettivismo l’equilibrio viene raggiunto mediante il consenso, in quanto le scelte dei soggetti sono pianificate, cioè sono tutte per definizione dello stesso tipo.
Le cose non sono però così semplici, perché quando le due logiche si storicizzano i parametri (teorici) di efficienza, che presuppongono comportamenti (individuali e collettivi) strettamente conformi ai principi della razionalità astratta tendono ad attenuarsi. In sintesi, tanto nel mercato pluralistico, quanto nella pianificazione collettivistica, si presentano anomalie di carattere individuale e sociale che alterano il “funzionamento” dei due modelli:
In tutti questi casi, il mercato mostra anomalie che ne alterano il funzionamento, il welfare state tende a diventare stato assistenzialistico e i punti di forza delle due logiche vengono molto depotenziati da altrettanti punti di debolezza:
Può darsi inoltre, come avviene nel sistema “misto” all’italiana, che i punti di forza vengano depotenziati e che si presentino nuovi punti di debolezza; cioè può darsi: (a) che il mercato funzioni male, a causa di bassi livelli di cultura imprenditoriale, diffusa presenza di corporazioni e mancanza di concorrenza reale, e che (b) la “pianificazione” (intesa come intervento pubblico) funzioni male, dando un’occupazione a coloro che non si vogliono inserire nel mercato, senza definire previamente il tipo e la quantità di occupazioni suscettibili di utilizzazione nel sistema produttivo, creando forti squilibri nel mercato del lavoro e nella pubblica amministrazione. In quest’ultimo caso non si riesce a gestire (meno che mai ad eliminare) la tendenziale emarginazione sociale e si mortificano l’innovazione e la meritocrazia a tutti i livelli e in tutti i settori, in quanto le scelte razionali trovano qualche spazio solo nel mercato.
Conseguenza: i giovani vengono completamente abbandonati a sé stessi e, fatto questo estremamente grave, perdono la percezione della meritocrazia e imparano ad anteporre il titolo di studio (con valore legale) allo studio inteso come apprendimento interiorizzato (con valore meritocratico); per cui il titolo finisce con l’avere un valore legale che corrisponde a un valore di mercato spesso molto inferiore o nullo.
Come fare per eliminare i punti di debolezza e per potenziare i punti di forza? Per avere qualche possibilità di successo, lo Stato dovrebbe intervenire in modo decisivo (a parte ovviamente gli interventi di altro tipo) sulla scuola e sulla formazione. Anzitutto esigendo che il merito (cioè la reale interiorizzazione delle materie dei curricula) diventi una prassi istituzionalizzata e una condizione necessaria per occupare qualsiasi ruolo sociale. Un primo passo, ma non il solo, in questa direzione dovrebbe essere l’abolizione del valore legale del titolo di studio. In secondo luogo, mediante forme di orientamento che rendano le scelte scolastiche e formative compatibili con l’efficienza produttiva, ivi compresa anche l’efficienza della pubblica amministrazione, e limitando in tal senso i gradi di libertà di queste scelte che attualmente vengono lasciate all’arbitrio dei singoli soggetti, cioè al caso. Ad oggi, nessuna delle due condizioni viene soddisfatta.
Esistono poi altri problemi più strettamente psicologici e culturali: non tutti i giovani vogliono investire nel proprio futuro. Non tutti hanno la forza di impegnarsi. Non tutti sono consapevoli del fatto che il mondo moderno globalizzato esige competizione e confronto e, in più, sacrifici e rinunce. Non tutti sono tanto altruisti da rimboccarsi le maniche prima ancora per la società, che per se stessi. D’altra parte i giovani laureati provengono da una scuola e da una università nelle quali non è frequente (diciamolo chiaramente) trovare professori che amino lo studio e che siano in grado di trasmettere questo amore agli studenti, che conoscano la didattica scientifica e che siano in grado di applicarla; professori e studenti che considerino l’insegnamento e lo studio come un servizio a favore della società e non come un mero strumento di scambio (insegnamento contro retribuzione) che si traduce nel conseguimento e nella corrispondente acquisizione di titoli di carta che vengono usati come strumento per vantare un diritto a un ruolo sociale inteso come beneficio associato anche in questo caso a una retribuzione priva di una reale utilità sociale.
Il discorso, quindi, si complica e i giovani laureati ai quali il mercato non fornisce un’occupazione conforme alle loro aspettative diventano un fatto sociale. Questo è uno dei veri, grandi problemi che incombono sul nostro paese. Ma è inutile che ci illudiamo di risolverlo come abbiamo fatto finora, con provvedimenti tampone; con mezze riforme che cambiano solo i nomi alle cose, lasciandole tutte come stanno; con impieghi pubblici, o comunque sostenuti da risorse pubbliche, che non eliminano la situazione di disagio sociale, ma la aggravano. O formando i formatori, perché il problema si ripresenta all’indietro: chi forma i formatori dei formatori? E non è una battuta. L’errore degli interventi pubblici (cioè delle scelte collettive) consiste nel prendere in considerazione gli effetti al posto della cause, le descrizioni dei fenomeni al posto delle loro spiegazioni. Una volta conosciute le cause, non sarebbe più semplice impedire che il sistema produca giovani laureati ai quali il mercato non fornisce un’occupazione conforme alle loro aspettative, anziché intervenire a posteriori per tentare di risolvere questo problema sociale? La razionalità porterebbe a propendere per la prima ipotesi. Ma gli economisti comportamentali, di questi tempi, sono impegnati nel dimostrare che gli uomini si comportano in modo non razionale. E non hanno tutti i torti. Quindi almeno i nostri studenti e le nostre studentesse di economia non dovrebbero preoccuparsi: fino a oggi hanno studiato (in modo non razionale) la teoria delle scelte razionali; domani studieranno (sempre in modo non razionale) la teoria delle scelte non razionali.