Nota metodologica

L’analisi scientifica del comportamento costituisce, con riferimento alla generalizzazione dei risultati sperimentali acquisiti e alla incidenza di questi risultati sui modelli di organizzazione sociale, una meta non ancora raggiunta. Gli ostacoli che si oppongono a questo tipo di analisi sono molteplici. Anzitutto, la tradizione culturale che da Socrate a Dilthey ha consolidato la dicotomia acritica uomo-natura, in una molteplicità di impostazioni filosofiche che continuano ad essere riproposte e seguite anche ai nostri giorni e che contengono tutte, pur nelle apparentemente diverse formulazioni, lo stesso leitmotiv.

La dicotomia è stata resa esplicita e definita da Dilthey con una operazione mirante, da un lato ad accettare il concetto di scienza emergente dalla prospettiva galileiana, dall’altro lato a svalutarlo assumendolo come contesto più generale (arbitrariamente definito in termini di senso comune) entro il quale si dovrebbero distinguere la scienza dello spirito e la scienza (sperimentale) della natura.

Su queste basi lo storicismo tedesco contemporaneo ha preteso, ovviamente sul piano filosofico, di imporre confini invalicabili alla scienza sperimentale, considerandola efficace solo con riferimento agli oggetti di natura, ma del tutto inadeguata con riferimento ai soggetti, cioè all’uomo.

In tal modo il dogma delle due realtà, cioè della separazione dello spirito (stato di coscienza, ovvero anima, men-  [pag. 205]  te, pensiero, psiche, nelle varie formulazioni date) dalla natura, viene assunto come vincolo rispetto al metodo conoscitivo, e trova un completamento nel dogma delle due metodologie (che può essere anche interpretato come il dogma delle due conoscenze), una riferita allo spirito, l’altra alla natura.

Questi dogmi, comunque, pongono fin dall’inizio, nell’ambito dello stesso storicismo tedesco contemporaneo, il problema del loro superamento, avvertito per primo da Weber, il quale però non capisce che l’uso del medesimo metodo conoscitivo (la spiegazione causale trasformata per l’occasione in spiegazione condizionale) con riferimento a due differenti realtà (oggetti conoscitivi), da lui tentato, conduce a conclusioni intrinsecamente contraddittorie. I due dogmi, infatti, debbono essere negati o accettati insieme (G. Bolacchi, Il problema del metodo nella sociologia, op. cit.).

A parte il tentativo di Weber, restano solo due possibili percorsi per superare il dogma delle due metodologie. Il primo percorso consiste nel trasformare l’insieme finito dei metodi in un insieme infinito; ciò si ottiene postulando una pluralità di metodi e prescindendo da qualsiasi vincolo imposto ai metodi dai possibili oggetti della conoscenza; sorge così il nuovo dogma del pluralismo metodologico, nelle sue più o meno estremistiche formulazioni (come l’anarchismo epistemologico di Feyerabend).

Su queste basi viene negato non solo il postulato della stretta compatibilità tra oggetto e metodo della conoscen-  [pag. 206]  za (su cui, sia pure in modo implicito, si fonda l’analisi di Dilthey), ma viene altresì negata la diversità esplicativa e operativa del metodo sperimentale rispetto a qualsiasi altro metodo conoscitivo. Ne consegue una semplicistica equipollenza dei metodi conoscitivi che favorisce un uso molto tollerante dell’attributo scientifico, applicato e applicabile a tutti i possibili ambiti conoscitivi; si ipotizzano, in sintesi, insiemi equipotenti di possibili scienze e di possibili metodi.

Una variante di questa tesi considera scientifica qualsiasi analisi conoscitiva (implicante qualsiasi metodo, purché reso esplicito) che possa essere espressa in un linguaggio logicamente coerente.

Il secondo percorso (qui definito) accetta il postulato della stretta compatibilità, ma considera ininfluente il dualismo spirito-natura ai fini dell’applicabilità del metodo scientifico (sperimentale e intersoggettivo) anche all’uomo. L’analisi degli organismi viventi (compreso l’uomo) viene, infatti, indirizzata verso il comportamento; allo stato di coscienza (nelle sue molteplici e varie rappresentazioni, quali l’anima, il concetto come atto o processo cognitivo e non come significato del segno linguistico, l’Erlebnis, la mente, il pensiero, la psiche, lo spirito) viene riconosciuto un carattere strettamente soggettivo, che qualifica anche gli ambiti di significatività dei linguaggi che lo designano e lo denotano (C. Morris, Segni, linguaggio e comportamento, Longanesi, Milano, 1977).  [pag. 207] 

Lo stato psicologico interiore, conoscibile solo introspettivamente, non viene negato, ma non viene neppure preso in considerazione nell’ambito dell’analisi scientifica; resta confinato entro l’esperienzialità individuale, in quanto non ha senso pretendere di manipolarlo (sia pure sul piano meramente cognitivo) come una variabile esplicita collegabile, mediante una funzione, a un’altra variabile esplicita.

Il comportamento, al contrario, inteso come modificazione (fisica) dell’ambiente realizzata dall’individuo (anche nel caso del comportamento comunicativo: B. F. Skinner, Il comportamento verbale, Armando, Roma, 1976) si presta all’analisi sperimentale con riferimento alle sue componenti basilari, che possono essere analizzate in laboratorio utilizzando organismi non umani. A questo proposito è opportuno sottolineare che l’unità di analisi, ovvero il fenomeno che si studia in laboratorio, non è come può sembrare al senso comune il ratto o il piccione, ma è appunto il comportamento nelle sue caratterizzazioni basilari (quelle che determinano l’insieme più generale nel quale tutti i possibili comportamenti di tutti gli organismi sono ricompresi), valide tanto per gli animali inferiori, quanto per l’uomo.

Lo studio del comportamento, pertanto, non si pone in termini disgiuntivi nei confronti dell’esperienzialità interiore ma semplicemente in termini alternativi, in quanto questo tipo di esperienzialità non può non essere riconosciuta; solo che questo riconoscimento postula una sua  [pag. 208]  radicale differenziazione con riferimento al linguaggio in cui essa si esprime, di tipo soggettivo, rispetto al linguaggio intersoggettivo della scienza.

Viene in tal modo proposto un dualismo di diversa natura, riferito ai risultati (soggettivi o intersoggettivi) della ricerca, e il metodo scientifico viene applicato sulla base della stretta compatibilità del fenomeno da studiare con l’esperimento controllato.

A ciò consegue l’inclusione entro i fenomeni naturali anche dell’azione umana nel suo duplice aspetto di comportamento e di stato di coscienza; il primo suscettibile di analisi sperimentale (intersoggettiva) in quanto fenomeno esterno e manifesto (“fuori dalla pelle”, nell’espressione di Skinner, che forse i filosofi considerano viziata da realismo ingenuo); il secondo del tutto incompatibile con l’analisi sperimentale, in quanto stato esperienziale, che può essere percepito e descritto solo in termini soggettivi.

Conseguentemente i confini della scienza sono determinati non tanto dagli oggetti ma, in termini di compatibilità, da questi ultimi e dal metodo (inteso come esperimento controllato e non come esperienzialità del senso comune) e il metodo scientifico può essere applicato anche a quei fenomeni umani, quali i comportamenti, che potendo essere analizzati sul piano sperimentale appartengono al mondo della natura a pieno titolo, come l’analisi darwiniana ha dimostrato e i successivi avanzamenti della biologia e della biochimica hanno confermato.  [pag. 209] 

In questa prospettiva, il campo degli stati di coscienza (spirito) non è cancellato, ma è confinato entro la percezione delle esperienze personali e interne che non producono per definizione conoscenza intersoggettivamente valida.

La intrinseca soggettività dello stato di coscienza non significa che quest’ultimo non possa manifestarsi anche all’esterno; e non significa neppure che la mente e i processi cognitivi non possano essere in qualche modo analizzati in un contesto pubblico.

La manifestazione esterna e la conseguente analisi pubblica che di questa manifestazione può essere fatta sono le due evidenze sulle quali la psicologia cognitivista fonda la propria rivalutazione delle funzioni mentali e la propria contrapposizione nei confronti del comportamentismo; una domanda di conoscenza sul proprio io, la propria soggettività, da usare per capire qualcosa di sé stessi, per superare frustrazioni, nevrosi, depressioni. Sostanzialmente una domanda di dialogo con qualcuno che possa fornire informazioni comprensibili, immediatamente percepibili e utilizzabili sul piano cognitivo del senso comune.

Questa domanda non può essere soddisfatta dai comportamentisti che presentano una offerta conoscitiva astratta, quantitativa, sperimentale, per giunta limitata in questa iniziale fase di sviluppo della scienza del comportamento, espressa in un linguaggio troppo diverso dal linguaggio che designa l’esperienza interiore del senso comune. L’offerta dei cognitivisti è molto più allettante e persuasiva  [pag. 210]  perché opera sulla scia di una tradizione consolidata, utilizza espressioni linguistiche strettamente compatibili con quelle del senso comune, rende il processo comunicativo, sul quale sostanzialmente si basa l’attività terapeutica in psicologia, estremamente popolare e comprensibile.

Le principali problematiche sviluppate dal cognitivismo, tanto sul piano globalistico (olistico), quanto sul piano atomistico (dei micro processi), si riferiscono a temi quali, per citarne solo alcuni, la percezione, l’attenzione, l’immaginazione e il ricordo, il linguaggio, la costruzione di mappe cognitive, che l’uomo sente e vive nella propria sfera personale.

Nonostante questa sua apparente capacità di allargare le problematiche a temi concernenti il vissuto quotidiano (l’esperienza ordinaria), il cognitivismo incontra proprio sul piano della metodologia di ricerca le più gravi contraddizioni e le più forti difficoltà, che emergono con riferimento al laboratorio, cioè alle situazioni artificiali che utilizza per i propri approfondimenti conoscitivi.

Ed emergono altresì con riferimento alle critiche che a queste tecniche vengono mosse dagli stessi cognitivisti, partendo dal presupposto che la spiegazione del modo in cui gli uomini agiscono nel quotidiano si può ottenere solo superando i confini del laboratorio, mediante l’utilizzo di una metodologia di tipo ecologico, in quanto non sarebbe possibile capire “l’attività cognitiva che si manifesta nell’ambiente ordinario e nel contesto di attività concre-  [pag. 211]  te” se non si dedica “maggiore attenzione ai particolari del mondo reale in cui vivono coloro che percepiscono e coloro che pensano, e alla delicata struttura di informazioni resa loro disponibile da quello stesso mondo”; essendo difficile “formulare una teoria soddisfacente dell’attività cognitiva umana, se ci si deve basare solo su esperimenti che forniscono a soggetti privi di esperienza brevi opportunità di eseguire compiti nuovi e privi di significato” (U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, Bologna, 1981).

Quali gli errori metodologici del cognitivismo? Anzitutto si realizzano manipolazioni di laboratorio che non sono esperimenti controllati, in quanto non viene salvaguardato il principio della omogeneità delle variabili. Le variabili interne, infatti, non possono essere per definizione direttamente determinate dallo sperimentatore, il quale può solo rilevarle indirettamente utilizzando i processi comunicativi e/o i comportamenti del soggetto sperimentale. In realtà, quindi, le manipolazioni di laboratorio dei cognitivisti hanno ad oggetto i comportamenti (verbali o di altro tipo) e non gli stati e i processi mentali, che vengono determinati probabilisticamente per analogia.

In secondo luogo gli stati mentali di diversi individui, per definizione, non possono essere tra loro comparati, ma possono solo essere ordinati con riferimento a ogni singolo individuo.

In terzo luogo il cosiddetto metodo ecologico, consistente nello studio dei soggetti collocati entro l’ambiente  [pag. 212]  reale in cui vivono, impedisce in linea di principio il controllo delle molteplici variabili fattuali, rendendo impossibile la determinazione delle funzioni, anche in termini meramente sintattici. Pertanto il cognitivismo propone esclusivamente una molteplicità di ipotesi non operative e spesso tra loro incompatibili.

Nell’ambito del cognitivismo, inteso in senso molto generale, si pone un’altra prospettiva di analisi, a metà strada tra la filosofia e la pseudo-scienza, la quale, partendo dalla semplicistica considerazione della complessità assunta come predicato indefinito, pretende di analizzare in termini sistemici i fenomeni sociali ed economici, e considera sul piano metaforico la società come organismo vivente.

Ovviamente tale prospettiva nega, anche per questa via, la possibilità di applicare allo studio dell’uomo e della società, intesi come comportamento individuale e comportamento sociale, il metodo scientifico dell’esperimento controllato. Un modo diverso per riproporre la distinzione tra organismo vivente e fenomeni naturali, attraverso una indebita estensione metaforica. La metafora infatti, in linea di principio, non consente di ampliare la conoscenza, avendo un carattere arbitrariamente ripetitivo di contenuti conoscitivi già acquisiti.

In sintesi, il fattore basilare che si oppone all’analisi scientifica del comportamento è dato dalla immediatezza con la quale l’uomo vive e analizza i propri stati di coscienza. Per via di tale immediatezza l’introspezione e l’in-  [pag. 213]  tuizione, che sono i principali strumenti metodologici pre-scientifici che l’uomo ha da sempre associato agli stati di coscienza, acquistano il carattere di strumenti privilegiati di conoscenza.

È stata necessaria una vera e propria rivoluzione conoscitiva, quella galileiana, per mostrare all’uomo nuovi strumenti di conoscenza; ma, nonostante tutto, per quanto i progressi della scienza sperimentale lo abbiano costretto ad ammettere l’inutilità dell’intuizione e dell’introspezione per esplicare i fenomeni naturali, l’uomo ha continuato e continua a vedere sé stesso esclusivamente utilizzando questi vecchi strumenti. E con essi costruisce la propria immagine, la propria organizzazione sociale, i propri modelli educativi, i propri miti e le proprie ideologie.

Ma soprattutto fonda, su questi modelli conoscitivi del senso comune, le proprie strutture di potere. Queste strutture sociali sono tutte caratterizzate dal conflitto, che gli uomini si illudono di poter eliminare con le generiche manifestazioni di volontarismo etico, con gli appelli deontologici e con le imposizioni normative. Ma è proprio il carattere ideologico del potere, nelle sue manifestazioni istituzionalizzate, a costituire un impedimento grave, forse il più grave, allo studio scientifico del comportamento umano e alla conseguente eliminazione della conflittualità tramite la scienza sociale [pag. 214] 

Indice della pubblicazione

Il sequestro come fatto sociale

G. Bolacchi


Premessa online

1. Le reazioni al sequestro e la percezione sociale del comportamento deviante

2. Il sequestro con riferimento al paradigma prescrittivo e al paradigma esplicativo

3. Il sequestro come sanzione sociale (contrappasso) contro la violazione dell’equilibrio egualitario

4. Forme di deviamento e modalità di prevenzione del deviamento sociale

5. La legge 15 marzo 1991 n. 82 sul blocco dei beni del sequestrato

6. Il sequestro e il problema del cambiamento delle culture

Conclusioni online

Note al testo

Nota sul coinvolgimento positivo e negativo degli interessi online

Nota sulla punizione online

Nota metodologica online

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