Nota sulla punizione

L’analisi scientifica del comportamento (H. Rachlin, Behavior and Mind. The Roots of modern Psychology, Oxford University Press, New York, 1994; J.E.R. Staddon, Behaviorism. Mind, Mechanism and Society, Duckworth, London, 1993) ha approfondito anche il problema della punizione in modo rigoroso, sul piano sperimentale e teorico, estendendone lo studio ai processi educativi; queste analisi sono tanto importanti, quanto sconosciute a buona parte di giuristi, sociologi e psicologi.

Comunque la punizione, che nella sua esplicazione scientifica consiste nel rendere contingente a un comportamento la somministrazione di un rinforzatore negativo o la sottrazione di un rinforzatore positivo, presuppone sempre un’interazione sociale di tipo conflittuale (coinvolgimento negativo di interessi) e non è compatibile con l’interazione sociale di tipo cooperativo (coinvolgimento positivo di interessi).

Così definita, la punizione non è il rinforzatore negativo, ma l’uso (somministrazione) di un rinforzatore negativo, o l’uso (sottrazione) di un rinforzatore positivo per impedire che un dato comportamento si realizzi (G. Bolacchi, Processo d’apprendimento e strutture ideologiche, op. cit.).

La punizione, nell’ambito del senso comune, di solito è presa in considerazione (e somministrata) prescindendo da una individuazione esplicita degli obiettivi ai quali è [pag. 193]  resa strumentale. Questo errore è, a volte, compiuto dagli stessi studiosi del comportamento. A seconda del quadro di riferimento in cui opera, la punizione assume, infatti, connotazioni e produce effetti diversi. Essa può essere resa strumentale, in linea di principio, a obiettivi di contrappasso, a obiettivi di controllo sociale e a obiettivi educativi.

Il fatto che la punizione venga presa in considerazione (e somministrata) senza un quadro di riferimento esplicitamente determinato non significa, comunque, che questo riferimento non sia logicamente presupposto, sia pure in modo latente, non potendosi altrimenti parlare di punizione; significa piuttosto che gli obiettivi del contrappasso, del controllo sociale e dell’educazione non vengono differenziati, in quanto normalmente si assume che l’unico quadro di riferimento della punizione (e l’unico obiettivo al quale la punizione possa essere resa strumentale) sia il principio del contrappasso (così come è recepito nella norma giuridica e, in particolare, nella norma penale).

Conseguentemente, la punizione viene considerata (anche sul piano strettamente etico) come espiazione, castigo, penitenza, in sintesi pena, da attribuire comunque quale corrispettivo del deviamento.

In tal modo, obiettivi quali il controllo sociale e l’educazione vengono considerati come irrilevanti rispetto alle modalità di applicazione della punizione, che è vista sempre e comunque in termini di contrappasso, con gravi stravolgimenti del controllo sociale e dell’educazione. L’uso [pag. 194]  strumentale della punizione rispetto a obiettivi di controllo sociale e di educazione dovrebbe infatti implicare, sulla base delle leggi scientifiche del comportamento operante e del comportamento rispondente, la costruzione di un ambiente punitivo radicalmente diverso dall’ambiente punitivo compatibile con l’uso strumentale della punizione rispetto a obiettivi di contrappasso.

Se la punizione non è strettamente rapportata agli specifici obiettivi per cui dovrebbe essere usata, si producono gravi danni sociali: i processi di apprendimento vengono compromessi, la personalità del punito (e di chi punisce) viene alterata (determinando anche effetti patologici rilevanti), l’interazione sociale si manifesta in termini conflittuali, vengono elicitati fattori emotivi di disturbo.

Tutte le attuali istituzioni educative, dalla famiglia alla scuola, si conformano strettamente a un uso acritico e tradizionale della punizione entro il contesto del contrappasso.

Al contrario la scienza del comportamento esplica i processi di apprendimento (e di sviluppo della personalità) al di fuori di tale contesto, in quanto l’applicazione della punizione ai processi educativi in una logica di contrappasso è una delle variabili indipendenti della diffusa conflittualità sociale che spesso si manifesta in termini di aggressività, cioè di conflittualità alla quale è associata una forte emotività.

Skinner afferma, pur senza prendere in esplicita considerazione il principio del contrappasso, che “a lungo andare la punizione, diversamente dal rafforzamento, lavora a [pag. 195]  svantaggio sia dell’organismo punito che dell’agente punitore. Gli stimoli aversivi necessari ad essa generano emozioni, ivi compresa la predisposizione alla fuga o alle vendette, ed ansie che riducono la capacità di agire” (B. F. Skinner, Scienza e comportamento, op. cit.).

Il controllo sociale dovrebbe operare in due modi, prevedendo:

  1. la somministrazione della pena contestuale al deviamento; in questo caso, comunque, il quadro di riferimento della punizione dovrebbe presentare una specifica linea di comportamento consentita all’individuo, concorrente col comportamento a cui viene resa contingente la pena e rinforzata positivamente con una forza maggiore rispetto al rinforzamento positivo che il soggetto associa al deviamento;
  2. la somministrazione della pena successiva al deviamento; nel qual caso la pena non può essere concepita o trasformata in una operazione di riabilitazione sociale, che dovrebbe essere realizzata al di fuori del contesto punitivo e non entro tale contesto, a meno che non si condizioni il deviante, come normalmente si tenta di fare, in modo da fargli interiorizzare l’espiazione, cioè il principio del contrappasso.

La riabilitazione ha costi sociali molto elevati rispetto ai benefici che determina; per questo motivo la privazione della libertà personale può essere ammessa, anche prescindendo dalla riabilitazione, non come pena ma come [pag. 196]  pura e semplice misura di prevenzione e tutela sociale, collegata a una patologia del comportamento derivante da un processo di socializzazione anomalo; ma per far questo bisogna rinunciare a interpretare la pena mediante il principio del contrappasso.

La privazione della libertà è considerata necessariamente una pena, e tale diventa, se la società esprime l’ideologia del contrappasso, cioè se l’ideologia del contrappasso costituisce un rinforzatore generalizzato del contesto sociale.

Questa prospettiva è talmente radicata nella cultura del senso comune, che è quasi impossibile, anche nelle concezioni illuministiche della pena, concepire quest’ultima come riabilitazione prescindendo dal suo aspetto più direttamente punitivo; tanto che si parla di pena come riabilitazione, nonostante la radicale contraddizione insita in una prospettiva di questo tipo.

Se al deviamento viene associata la riabilitazione, la punizione deve essere necessariamente interpretata e usata entro una logica di controllo sociale e non di contrappasso. In questo senso l’antinomia della pena risente della confusione tra contrappasso e controllo sociale.

E’ difficile modificare una situazione consolidata, anche se i dibattiti sulla pena e sulla rieducazione associata alla pena, pur nell’equivoco concettuale che manifestano, mostrano un progressivo depotenziamento, sul piano culturale (storico), dell’ideologia del contrappasso (depotenziamento che non può essere espresso compiutamente [pag. 197]  nella prospettiva formalistica di Kelsen). Pena e riabilitazione sono, comunque, concetti mutuamente esclusivi, in quanto postulano quadri di riferimento non compatibili.

La punizione, che per semplicità di analisi viene qui riferita solo alla somministrazione di un rinforzatore negativo (interpretato come pena, nell’ambito del principio del contrappasso), è caratterizzata da due contesti, che non sempre sono tenuti distinti:

  1. il contesto della prevenzione, nel quale la comunicazione della punizione futura determina l’aspettativa della pena e ha una connotazione dissuasiva; nel linguaggio comportamentistico di Skinner, questa ipotesi concerne il comportamento di evitamento (avoidance) condizionato da un processo di rinforzamento secondario negativo che, nel caso della norma giuridica, è di tipo linguistico (pena annunciata);
  2. il contesto della aversione, cioè della somministrazione della pena (contestuale o successiva al deviamento), al quale con maggiore frequenza si riferiscono le polemiche, dall’illuminismo giuridico in poi; sempre nel linguaggio comportamentistico di Skinner, riferito alla somministrazione, contingente a un dato comportamento, di uno stimolo aversivo, questa ipotesi potrebbe essere esplicata come comportamento di fuga (escape) condizionato da un processo di rinforzamento primario negativo (pena applicata).

La pena annunciata implica l’applicazione della punizio- [pag. 198]  ne, altrimenti l’effetto deterrente dell’anticipazione verrebbe meno; in termini comportamentistici, un rinforzatore negativo secondario non sarebbe tale se non fosse collegato a un rinforzatore negativo primario (asserzione valida non solo per il comportamento operante, ma anche per il comportamento rispondente, analizzato da Pavlov come riflesso condizionato).

Visto che la punizione ha comunque e sempre un effetto deterrente (in termini scientifici, ove sia resa contingente a un dato comportamento ne blocca le sequenze strumentali; e questo vale tanto per la pena applicata, intesa come rinforzatore negativo primario, quanto per la pena annunciata, intesa come rinforzatore negativo secondario), ci si potrebbe chiedere se ha senso somministrare la pena anche quando l’effetto deterrente non c’è stato, per l’avvenuta realizzazione del comportamento deviante; comportamento che viene facilitato dalla mancanza di contestualità tra pena e deviamento (dalla impossibilità di somministrare l’impedimento aversivo durante il deviamento, cioè dalla impossibilità di rendere l’impedimento aversivo contingente a una sequenza strumentale del deviamento) o dall’inadeguatezza della scelta disgiuntiva fra linee d’azione posta dalla norma, in quanto la pena sacrifica un interesse del deviante avente un livello di intensità meno elevato rispetto al livello di intensità dell’interesse espresso dal deviamento.

Il mancato effetto dissuasivo indica che la punizione non ha funzionato come variabile indipendente rispetto [pag. 199]  all’interruzione dei comportamenti strumentali devianti e che, con probabilità molto alta, in situazioni equivalenti, non funzionerà per il futuro.

In questa prospettiva, poiché il significato comportamentistico della pena non è l’espiazione, ma l’interruzione degli operanti strumentali che realizzano il deviamento, la operatività della pena rispetto al deviamento è nulla. Tuttavia la sua somministrazione, ancorché inutile per il deviante, è utile per conferire significato reale alla pena annunciata, cioè per impedire futuri deviamenti in soggetti che abbiano atteggiamenti devianti potenziali rispetto a quelli del deviante attuale.

E’ questo il significato sociale della pena e in questo significato si manifesta la sua antinomia: la pena non serve per (contro) il deviante attuale, ma serve per (contro) il deviante potenziale; per contrastare il deviamento (futuro) bisogna applicarla anche quando essa non è riuscita a impedire il deviamento (passato).

Le esplicazioni della punizione, che dopo Skinner sono state ampliate e approfondite, appartengono alla (recente) scienza del comportamento; le problematiche sulla punizione, al contrario, sono antiche e appartengono alla storia del pensiero filosofico e giuridico che, come accade per tutto ciò che concerne l’uomo e la società, le ha tramandate, in modo acritico e ridondante, al senso comune dei nostri giorni; il quale non si differenzia, nelle sue linee basilari, dalla cultura primitiva, anche se pretende di esse- [pag. 200]  re molto più sofisticato dal punto di vista concettuale e linguistico, soprattutto nell’ambito delle dottrine sociali, giuridiche e politiche, che rielaborano la cultura primitiva in una forma solo apparentemente diversa.

Gli studi antropologici analizzano la punizione con riferimento al più generale principio del contrappasso, che Kelsen considera come il paradigma conoscitivo, immediato e basilare, mediante il quale il primitivo interpreta e realizza l’interazione sociale (H. Kelsen, Società e natura, Einaudi, Torino, 1953).

Il principio del contrappasso presenta due caratterizzazioni, una di tipo antropologico e l’altra di tipo ideologico, tra loro strettamente connesse, in quanto la seconda costituisce lo sviluppo logico della prima.

La caratterizzazione antropologica, forse più immediata rispetto alla seconda, esprime un modello tipico di comportamento sociale del primitivo che Kelsen approfondisce in modo puntuale, ma non esplica, assumendolo piuttosto come un dato. In una prospettiva comportamentistica può essere formulata una ipotesi esplicativa concernente le variabili indipendenti che hanno rinforzato (e rinforzano) la rappresentazione del mondo in termini di contrappasso; rappresentazione che tuttora continua ad essere applicata ai fenomeni sociali, nelle loro varie manifestazioni.

Il primitivo (il senso comune), interpretando intuitivamente il comportamento con riferimento all’ambiente naturale e sociale, costruisce un modello conoscitivo che gli [pag. 201]  consente di rendere compatibile tutta la realtà coi propri stati di piacere o di dolore, in quanto interpreta questi stati come derivanti da fattori esterni (naturali o sociali) e come appartenenti non solo all’uomo, ma anche a tutti gli eventi naturali che lo circondano o che crede lo circondino.

Questa interpretazione, che costituisce il più immediato criterio di valutazione e di indirizzo del comportamento, postula l’esigenza di far corrispondere al piacere (attribuito dall’esterno) un piacere (ricambiato all’esterno) e al dolore (provocato dall’esterno) un dolore (imposto all’esterno).

In questo modo sorge il principio del contrappasso, che il primitivo utilizza nei confronti del sociale, della divinità e della natura, proprio in quanto attribuisce a tutti gli eventi gli stessi caratteri che riconosce al proprio comportamento: un carattere acquisitivo o un carattere sottrattivo. Acquisizione e sottrazione si manifestano alterando la staticità del mondo (equilibrio statico, che sul piano sociale diventa equilibrio normativo), la quale deve essere ricomposta e riaffermata continuamente, in funzione di una esigenza primaria di sicurezza psicologica.

La caratterizzazione ideologica del principio del contrappasso si sviluppa e si consolida mediante la progressiva sistematizzazione, sul piano conoscitivo e linguistico, degli immediati e primari comportamenti di reazione, soprattutto nei confronti degli altri soggetti, realizzati al fine di rendere prevedibile (affidabile) l’interazione sociale. A [pag. 202]  questo punto il principio del contrappasso fonda ed esprime la norma giuridica, in quanto utilizza la pena e la ricompensa per ricomporre e rinforzare la persistenza dell’interazione sociale e dei ruoli sociali (nella loro eguaglianza o diversità).

Nella logica del contrappasso, tanto la pena quanto la ricompensa servono a esprimere socialmente (in una interpretazione comportamentistica si potrebbe dire a rinforzare negativamente o positivamente) la dissonanza del deviamento e la consonanza della conformità, nei confronti dei comportamenti legittimati nell’organizzazione sociale.

La norma esprime, pertanto, l’interesse alla salvaguardia e alla persistenza del gruppo sociale e incorpora, nella sua versione punitiva, la reazione primaria della vendetta, attribuendo a quest’ultima una specifica connotazione sociale, a prescindere dalle modalità che ne caratterizzano l’attuazione. La vendetta da atto individuale si trasforma in norma quando, anche se compiuta da un individuo, è riconosciuta dalla collettività come espressione del principio del contrappasso.

Poiché il contrappasso postula una stretta equivalenza tra azione e reazione (nella duplice connotazione di pena e ricompensa), il suo significato può essere esteso, tanto da ricomprendere non solo l’equivalenza (intesa come equilibrio statico) tra deviamento e pena e tra conformità e ricompensa, ma anche le forme di equilibrio sociale dinamico (stabile o instabile) tra i diversi ruoli esistenti nell’orga- [pag. 203]  nizzazione sociale, tra i ruoli e le capacità o anche il capitale sociale di cui i soggetti dispongono, tra le risorse economiche variamente distribuite nel gruppo, tra i ruoli e le risorse economiche ad essi associate.

Queste forme di equilibrio sociale dinamico danno luogo a modalità di interazione, quali lo scambio (che lo stesso Kelsen fa derivare dal contrappasso), il mercato, la politica intesa come mediazione e bilanciamento di poteri e opportunità tra gruppi contrapposti, il potere deviante (G. Bolacchi, La struttura del potere, op. cit.).

La interpretazione estensiva del principio del contrappasso (che non è presa in considerazione da Kelsen, il quale, peraltro, considera il contrappasso come il paradigma basilare della cultura primitiva) mostra che questo principio può presentarsi come ideologia anche nella cultura attuale, tuttora fondata sul senso comune, e può condizionare in misura rilevante l’attuale livello di conoscenza dell’uomo e della società (G. Bolacchi, “Le scatole vuote della sociologia”, in J. Jacobelli (a cura di), Dove va la sociologia italiana?, Laterza, Bari, 1988).  [pag. 204] 

Indice della pubblicazione

Il sequestro come fatto sociale

G. Bolacchi


Premessa online

1. Le reazioni al sequestro e la percezione sociale del comportamento deviante

2. Il sequestro con riferimento al paradigma prescrittivo e al paradigma esplicativo

3. Il sequestro come sanzione sociale (contrappasso) contro la violazione dell’equilibrio egualitario

4. Forme di deviamento e modalità di prevenzione del deviamento sociale

5. La legge 15 marzo 1991 n. 82 sul blocco dei beni del sequestrato

6. Il sequestro e il problema del cambiamento delle culture

Conclusioni online

Note al testo

Nota sul coinvolgimento positivo e negativo degli interessi online

Nota sulla punizione online

Nota metodologica online

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