Il passaggio dal sottosviluppo allo sviluppo tra analisi economica e analisi sociologica
Il problema del Mezzogiorno, che negli anni ’50 sembrava interessare solo il meridione d’Italia, appare oggi di portata mondiale, in quanto si inserisce nell’ambito più generale del problema dello sviluppo di quelle aree un tempo denominate “sottosviluppate” e che ora vengono chiamate “aree in via di sviluppo”.
Gli economisti riconoscono che i modelli di crescita propri delle aree già sviluppate hanno una sufficiente capacità esplicativa; non altrettanto può dirsi con riferimento alla determinazione dei modelli di crescita relativi ad aree e a sistemi economici non sviluppati. I tentativi di individuare le variabili indipendenti rispetto alle situazioni di sottosviluppo, infatti, hanno avuto alterne fortune; tanto che Albert O. Hirschmann a proposito di questi problemi ha parlato di declino dell’economia dello sviluppo.
Le ipotesi formulate nell’ambito della teoria economica circa il problema concernente l’attivazione all’interno di un sistema economico sottosviluppato di un processo di accumulazione endogena, ovvero di una crescita autoctona del sistema, sono molteplici: da quelle di sviluppo squilibrato a quelle di sviluppo equilibrato, con tutte le possibilità intermedie fondate sulla attivazione di processi di industrializzazione di base. Tutte queste ipotesi individuano come variabile indipendente strategica il trasferimento di risorse da un’area sviluppata verso un’area in via di sviluppo.
Gli interventi di politica economica fondati su tali modelli si sono, tuttavia, risolti nella localizzazione nelle aree in via di sviluppo di attività industriali totalmente avulse dal contesto economico [pag. 167] preesistente e, lungi dall’eliminarla, hanno determinato una accentuazione della dipendenza della struttura economica arretrata dal flusso continuo di risorse che provengono dall’esterno dell’area. Questo flusso di risorse ha consentito al meridione di acquisire redditi sufficientemente elevati, livellati a quelli delle regioni italiane più avanzate, ma non ha determinato accumulazione endogena. Perciò, se venissero a mancare questi flussi di risorse (nelle loro varie configurazioni), molte zone del meridione si ritroverebbero nella identica situazione in cui si trovavano negli anni ’50.
Se la immissione di risorse nell’area sottosviluppata non riesce ad attivare processi di accumulazione endogena, si deve concludere che le esplicazioni economiche concernenti il passaggio dal sottosviluppo allo sviluppo non riescono a individuare le variabili indipendenti rispetto all’attivazione di processi di sviluppo. Da ciò consegue necessariamente che il problema del sottosviluppo deve essere risolto con riferimento a una prospettiva di analisi più ampia di quella economica.
Il problema fondamentale del sottosviluppo può essere sintetizzato nell’ambito di una teoria della dipendenza, con riferimento a una struttura economica dualistica in cui si abbia compresenza di aree sviluppate e di aree sottosviluppate. La teoria della dipendenza afferma che le aree sottosviluppate sono utilizzate strumentalmente dalle aree sviluppate. Questa ipotesi interpretativa, depurata da connotazioni ideologiche, può essere utilizzata per porre alcuni punti di riferimento sui quali possa convergere una accettazione generalizzata.
Nell’ambito di tale teoria viene attribuita importanza fondamentale alla configurazione oligopolistica della struttura industrializzata delle aree sviluppate. L’interesse di queste aree è infatti quello di considerare le aree sottosviluppate come ampi mercati potenziali.
In questa situazione, la logica degli aiuti alle aree sotto-[pag. 168]sviluppate si fonda non su elementi di tipo “sociale”, ma esclusivamente su interessi di mercato. Infatti, l’unica modalità per acquisire le quote di mercato della aree sottosviluppate consiste nell’attivare trasferimenti di risorse verso queste ultime, tali da non configurare localizzazioni di strutture produttive integrate nella aree sviluppate, ma esclusivamente localizzazioni di strutture produttive finalizzate unicamente alla occupazione. In tal modo, i salari potranno trasformarsi in consumi, cioè in flussi di risorse in uscita dalle aree sottosviluppate, che andranno a incrementare i mercati delle aree sviluppate. La immissione di risorse esterne nelle aree sottosviluppate si realizza pertanto in funzione della attivazione di un flusso di consumi, e quindi di un incremento delle quote di mercato delle aree sviluppate.
In estrema sintesi, questa è la logica che negli ultimi quaranta anni ha presieduto a tutto il modello di attivazione dello sviluppo nella aree sottosviluppate, la quale ha prevalso, sia con riferimento al meridione d’Italia, sia con riferimento agli aiuti alle aree sottosviluppate in altre parti del mondo.
Questa logica estremamente semplice consente la individuazione precisa degli obiettivi da raggiungere, e quindi la prefigurazione di politiche di intervento che possono essere utilizzate immediatamente dai governi. Tuttavia non poteva e non può produrre effetti di accumulazione endogena, ovvero di interdipendenze fra le imprese localizzate nelle aree sottosviluppate, in quanto: 1) nelle aree sottosviluppate il mercato tende a determinare la localizzazione di imprese che non determinano verticalizzazione all’indietro; 2) le piccole e medie imprese localizzate nelle aree sottosviluppate, per via del mercato oligopolistico in cui sono inserite, operano in una situazione caratterizzata da un differenziale negativo di produttività, che non può essere superato, nonostante gli interventi pubblici in termini di incentivi ed erogazione di contributi.[pag. 169]
La mancata creazione di interdipendenze dal lato della produzione, connessa alla mancata localizzazione di imprese che possono produrre verticalizzazione all’indietro, è pertanto determinata dal fatto che i flussi di risorse sono orientati al consumo piuttosto che all’investimento, sulla base della divisione del lavoro emergente dal mercato. La localizzazione in Sardegna o in Sicilia della industria petrolchimica è conforme a questi parametri di mercato.
Il problema degli oligopoli e della crescita forzata dei mercati, che impedisce l’accumulazione endogena nelle aree sottosviluppate a vantaggio delle aree sviluppate, non può essere risolto dall’economista.
Nell’ambito dell’analisi economica non può essere infatti ipotizzato un modello concernente lo sviluppo endogeno, per il fatto che le variabili strategiche che condizionano lo sviluppo endogeno sono non solo di tipo economico ma anche, e soprattutto, di tipo sociale.
Il mercato oligopolistico individua, infatti, un processo di integrazione sociale complesso, che investe sia le aree sviluppate, le quali hanno interesse a mantenere gli equilibri delle aree sottosviluppate, sia le aree sottosviluppate, le quali hanno interesse a mantenere i propri equilibri di sottosviluppo, che tendono a trasformarsi in “equilibri di consumo” livellati a quelli delle aree sviluppate, ma non in “equilibri di produzione”.
Il compito del sociologo è quello di individuare le variabili sociali che caratterizzano questa situazione, cioè quello di individuare i fattori culturali e politici ai quali l’oligopolio è connesso, che interessano tanto le aree sviluppate quanto le aree sottosviluppate. Senza la conoscenza delle variabili sociali non si può modificare il rapporto fra sviluppo, da un lato, e incremento del reddito senza sviluppo, dall’altro lato.
Emerge, quindi, il problema del rapporto tra sociologia ed economia. Per risolvere il problema del passaggio dal sot-[pag. 170]tosviluppo allo sviluppo occorre che, su un piano metodologico, gli economisti e i sociologi, che finora hanno lavorato separatamente, inizino a lavorare insieme e portino avanti un discorso di frontiera che integri le due componenti dell’analisi sociale, quella economica e quella sociologica, in un modello esplicativo che superi le carenze teoriche dei modelli finora formulati.
I modelli esplicativi economici sono troppo poveri. Non si può pretendere di controllare una società complessa usando solo poche variabili economiche, anche se queste variabili vengono inserite in un contesto di trasformazioni logico-matematiche più o meno avanzato.
Questa situazione può essere imputata, in parte, a un ritardo con riferimento agli studi sociologici sul problema del sottosviluppo rispetto alla formulazione di modelli esplicativi economici. La ricerca sociale svolta con riferimento al Mezzogiorno, quantunque abbia dei contenuti importanti che debbono essere salvaguardati, non è soddisfacente. Gli studi condotti in questi decenni si sono limitati a porre in evidenza la esistenza di situazioni sociali che rendono difficile la comprensione esatta del fenomeno del Mezzogiorno, e più in generale del fenomeno del passaggio dal sottosviluppo allo sviluppo, e che rendono altresì difficile la possibilità di definire interventi di politica economica e sociale in stretto raccordo con i risultati delle indagini e delle ricerche sociali. Conseguentemente si è creata una dicotomia fra le acquisizioni derivanti dalle indagini e dalle ricerche sociali con riferimento al Mezzogiorno, e più in generale alle aree sottosviluppate, e gli interventi di politica economica e sociale che hanno interessato il meridione d’Italia.
Il sociologo, purtroppo, non ha ancora acquisito e consolidato uno schema teorico fondato su basi rigorosamente sperimentali; possiede solo un tipo di conoscenza che sostanzialmente non si discosta da quello del senso comune, a [pag. 171] mala pena mascherato da un certo esoterismo linguistico. Egli pertanto non è in grado di dare alcun supporto al politico; può porre solo problematiche di tipo deontologico. Al contrario l’economista, in virtù del suo maggior peso culturale che gli deriva dal possesso di una struttura logica e matematica consolidata, continua a influire sugli orientamenti di politica economica. L’economia ha cominciato a fondarsi come scienza quando Pareto e Walras hanno iniziato a elaborare una teoria che superasse le pure e semplici ipotesi del senso comune. La teoria dell’equilibrio economico consente all’economista di fornire ai politici un obiettivo di efficienza. L’economista controlla gli equilibri del sistema economico, indica le situazioni di disequilibrio, fornisce correttivi per eliminare le situazioni di disequilibrio, ritiene di saper controllare la dinamica del sistema, ha sempre qualche ipotesi da formulare con riferimento alle variabili alle quali si riferisce.
Il sociologo dovrebbe fornire al politico un supporto altrettanto valido con riferimento al controllo degli equilibri sociali e della dinamica culturale nell’ambito di una società pluralistica. Questo richiede: 1) che la ricerca sociale venga rigorosamente distinta dalla deontologia e dalla ideologia sociale; 2) che la ricerca sociale non si fermi alle constatazioni e alle analisi descrittive, ma individui variabili indipendenti e dipendenti, in modo almeno altrettanto rigoroso quanto l’analisi economica; 3) che la ricerca sociale trovi un punto di riferimento univoco nell’esperimento controllato e non fondi la “interpretazione semantica” della propria sintassi esclusivamente sulle metodologie statistiche; fatto questo più accettabile per l’analisi economica, concepita come analisi di tipo normativo (concernente la efficienza/razionalità), che per l’analisi sociale, che non ha senso concepire in termini normativi, in quanto connessa esclusivamente a una prospettiva di efficacia (cioè di attualità) e non di efficienza (cioè di normatività).[pag. 172]
Il punto di partenza degli studi che dal 1950 hanno animato la sociologia italiana è stato quello della conoscenza della realtà meridionale. Ora il sociologo non deve più affrontare il problema della conoscenza del meridione, bensì quello della esplicazione del meridione. E la esplicazione di qualsiasi problema richiede la individuazione delle variabili indipendenti e dipendenti che consentano di formulare una ipotesi teorica il più possibile comprensiva e di costruire strumenti operativi, che poi diventeranno strumenti di politica economica e di politica sociale. Se non si individuano variabili indipendenti e dipendenti si resta nell’ambito del descrittivo; e una analisi di tipo descrittivo, anche se “nobile” rispetto al senso comune, non consente di formulare un modello esplicativo scientifico, e quindi non consente di definire interventi realmente efficaci con riferimento alla modificazione di situazioni complesse.
Il sociologo, tuttavia, non può comprendere la realtà del sottosviluppo da solo, così come non può permettersi di lasciare all’economista l’onere (e l’onore) di tentare di risolvere questi problemi, posto che esiste una componente sociologica irriducibile ai modelli economici fino ad ora realizzati.
Il sociologo deve partire dalla esplicazione economica, prendere atto della crisi della esplicazione economica e formulare ipotesi teoriche più ampie, che potrebbero consentire di comprendere finalmente le relazioni esistenti tra analisi economica e analisi sociale e, forse, di dare un senso “fattuale” alla stessa analisi economica.[pag. 173]
(G. Bolacchi, Il passaggio dal sottosviluppo allo sviluppo tra analisi economica e analisi sociologica, pp. 167-173)
Commento al testoCommento al testo
Le problematiche affrontate nel testo mostrano come l’integrazione fra economia e sociologia (o, meglio, la integrazione fra economia e scienza del comportamento) sia fondamentale per capire i problemi del “sottosviluppo” e dell’attuale globalizzazione. Solo in questa prospettiva possono essere esplicati i problemi socio-economici che attualmente stiamo vivendo, in una dimensione europea e mondiale.