Pluralismo e innovazione

(G. Bolacchi, pubblicato in: Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 1978)

Il prof. Francesco Galgano in un recente articolo apparso su “Orientamenti nuovi per la piccola e media industria” formula alcune domande sullo “stato culturale” dell’industria italiana e, a suo modo, tenta di fornire alcune risposte. C’è un piano culturale dell’industria italiana? —si domanda Galgano— e se c’è, quale è questo piano? In quale direzione si muovono le Fondazioni legate al mondo industriale? Quale è il senso delle iniziative culturali della Confindustria?

La risposta di Galgano è negativa. E, francamente, non stupisce. Potrebbe essere anzi in qualche modo giustificata se prendesse le mosse da una ricostruzione critica —in una prospettiva storica— del ruolo della cultura industriale nella società italiana.

Il fatto è che questa risposta si riferisce al presente e, come tale, è certamente troppo sbrigativa in quanto non tiene conto obiettivamente dello sforzo che i vertici della Confindustria stanno realizzando proprio sul piano culturale e che ha segnato, con il discorso di Carli a Portofino, una presenza estremamente significativa. Mi riferisco qui ovviamente all’ultima delle domande di Galgano; delle prime non so, e non mi sembra che lo stesso Galgano sappia o possa dir molto.

In realtà, nella percezione di alcuni osservatori frettolosi o distratti il discorso di Carli a Portofino è stato visto come un tentativo di riproporre alla società italiana i motivi classici del liberismo, come unici elementi attraverso i quali l’imprenditorialità possa essere recuperata e salvata. Ma neppure Galgano, che non è certo osservatore frettoloso o distratto, mostra di aver compreso il senso di questo discorso; lo apprezza solo perché le parole in esso contenute sarebbero “aperte al dialogo con le grandi organizzazioni politiche di massa e persino tributarie dei meriti culturali del marxismo”.

È un tratto tipico delle culture che si fondano su ideologie totalizzanti ammettere solo l’approvazione. Galgano, da buon marxista, non si sottrae alla regola: è disposto ad accettare se il discorso e compatibile con la propria ideologia, respinge o ignora se così non è.

Egli accetta fideisticamente l’assunto secondo cui la classe operaia sarebbe egemone non per il numero quanto per le idee. Ma si è mai chiesto Galgano quali sono i criteri metodologici in base ai quali —al di là del numero— solo le idee della classe operaia sarebbero valide e non lo sarebbero le idee di altri gruppi o classi? Si è mai chiesto perché il metodo dialettico o la prospettiva storicistica dovrebbero essere più validi del metodo sperimentale e della prospettiva scientifico-galileiana utilizzata da chi tenta di spiegare in modo non ambiguo e intersoggettivo i fenomeni sociali?

E veniamo ora alle proposte culturali della Confindustria, che non sono solo i “lacci e lacciuoli”, ma qualcosa di ben più ampio e diverso; sono proposte che presuppongono non l’assunzione acritica di una o più o meno logora filosofia del padronato, ma la considerazione della impresa come strumento che consenta al pluralismo sociale di realizzarsi e rafforzarsi in termini di innovazioni economiche e culturali. In questa prospettiva il discorso di Carli a Portofino prende appunto le mosse da una ridefinizione del pluralismo; non è quindi inutile tentare un approfondimento dei temi trattati.

Il dibattito sul pluralismo, che attualmente va svolgendosi anche in Italia, deriva dall’esigenza di comprendere meglio il senso della nuova società che sta lentamente emergendo. Non a caso il termine “pluralismo” e andato via via sostituendo termini quali “democrazia”, “libertà”, “garantismo”, “interclassismo”, tipici di un certo stadio di riflessione della società e dello Stato.

Il concetto di pluralismo pone l’accento non già sul garantismo come libertà negativa, né sulla partecipazione come libertà positiva; sono, queste, dimensioni ormai acquisite alla prassi e al pensiero politico delle moderne società occidentali. Esso pone piuttosto l’accento sul fatto che la società moderna si articola e si ristruttura in un insieme di gruppi e sub-gruppi, ciascuno dei quali tenta di diversificarsi perché porta avanti, in un settore più o meno specifico, un proprio autonomo discorso culturale. Non si tratta quindi di mera partecipazione, ma di quella che potrebbe chiamarsi “esigenza di autogestione della partecipazione”.

È forse questa la connotazione più evidente delle società post-industriali, nelle quali partecipazione e garantismo si fondono in una dimensione che vede non più il singolo bensì il gruppo come l’elemento centrale della dinamica sociale. A una società in cui i singoli chiedevano individualmente garanzie e partecipazione democratica si è sostituita una società in cui i gruppi si incontrano e si scontrano per gestire i problemi sociali.

È evidente che, a questo punto, tutte le vecchie teorizzazioni sulla democrazia, la delega politica, la partecipazione indiretta, la libertà da e per mezzo dello stato vengono messe in crisi. Molta parte delle incomprensioni della moderna società, che caratterizzano anche le attuali analisi e dispute sul concetto di pluralismo, derivano dal fatto che si tenta di chiarire questo concetto utilizzando schemi interpretativi superati, validi per la vecchia realtà, ma inadeguati per la nuova.

La novità della relazione di Carli che, purtroppo, pochi hanno avvertito, è data anzitutto dalla presa di coscienza della nuova dimensione assunta dalla società post-industriale e in secondo luogo dalla esigenza di utilizzare, per comprendere questa nuova società, nuovi strumenti e schemi metodologici. Se è vero che il pluralismo esprime la nuova dimensione della società odierna, se è vero che questa società è una società non più di singoli ma di gruppi in concorrenza su progetti sociali, economici e politici, se sono veri questi assunti, bisogna allora individuare il parametro che spinge i gruppi a entrare in concorrenza e che legittima all’interno della società la loro stessa esistenza.

La società moderna, in quanto società pluralistica, è una società intrinsecamente innovatrice, proprio perché la concorrenza tra i gruppi sul piano sociale e politico non potrebbe esprimersi se i gruppi non si facessero portatori di innovazioni. L’innovazione costituisce quindi l’elemento centrale di legittimazione di ciascun gruppo.

In una società in cui i singoli chiedevano solo libertà dello Stato e quindi garantismo non c’era evidentemente bisogno di innovazione, così come non c’è bisogno di innovazione in una società in cui i singoli chiedono partecipazione, sia pure mediata dalla presenza egemonica di una classe o di un partito.

In una società in cui i gruppi autogestiscono la propria partecipazione al sociale, l’innovazione come nuova proposta culturale diventa l’elemento centrale di tutta la dinamica sociale. Una società pluralistica è caratterizzata dalla compresenza di molteplici gruppi concorrenti, ma ciascun gruppo per entrare in concorrenza deve necessariamente proporre un discorso culturale di tipo innovativo.

Un discorso di questo tipo si pone come radicalmente diverso non solo rispetto ai vecchi schemi interpretativi della democrazia ottocentesca, ormai consolidati nei manuali di analisi giuridica e politica, ma si pone anche come momento radicalmente diverso rispetto al nuovo modello di partecipazione democratica egemonizzata da un classe o da un partito, che è attualmente portato avanti dalla prospettiva marxiana; la quale pure parla di pluralismo, ma in modo evidentemente ben diverso da quello che ricollega il pluralismo alla concorrenza fondata sull’innovazione.

Ricondurre il discorso di Carli a una vieta riproposizione dei motivi classici del liberismo è pertanto estremamente fuorviante, come altrettanto fuorviante sarebbe il ricondurlo a una aprioristica e apodittica riproposizione del concetto di centralità dell’impresa.

Nella prospettiva che ho tentato sinteticamente di delineare, più che di centralità dell’impresa bisognerebbe parlare di centralità della innovazione. In questa nuova dimensione l’impresa è in realtà strumentale rispetto al pluralismo. È strumentale perché rappresenta, nel settore economico, l’unico fattore mediante il quale si realizza l’innovazione; e poiché non può darsi pluralismo senza innovazione, l’impresa costituisce una ineliminabile condizione del pluralismo.

Se “pluralismo” significa concorrenza che si esprime mediante l’innovazione culturale, politica ed economica, allora tutti i fattori di innovazione —tra i quali in primo luogo l’impresa— devono essere valorizzati in quanto strumenti indispensabili alla realizzazione del pluralismo.

Ebbene, vogliamo misurarci su questi temi o riteniamo che il marxismo costituisca l’ultima pagina del libro della conoscenza umana?

Articoli collegati

Egemonia o pluralismo?, Il Sole 24 Ore, 4 marzo 1978

Definiamo il pluralismo, Il Sole 24 Ore, 22 marzo 1978

Impresa e mercato. I vincoli all’operare in Italia, Rivista di Politica Economica, marzo 1978.

error: Protetto © Giulio Bolacchi