Una Comunità del Mezzogiorno
Gli studi sul sottosviluppo cominciano a essere piuttosto numerosi, quantunque ancora non si sia giunti a una coerente sistematizzazione teorica della materia. E anche sotto il profilo strettamente sociologico non mancano indagini serie, seppure orientate in senso molto spesso analitico, tendenti a una mera rilevazione e catalogazione dei dati empirici. È ovvio come a studi del genere non possa non riconoscersi una fondamentale importanza; ma è pure incontestabile come i tentativi volti a caratterizzare il fenomeno su un piano più propriamente teorico, mediante la individuazione di strutture sociali ad alto grado di generalità, debbano essere accolti con molta maggiore soddisfazione e suscitino un più largo interesse.
Alla stregua di queste premesse ci sembra debba essere valutato il lavoro di Edward C. Banfield – edito negli Stati Uniti nel 1958 – e che nel 1961 è apparso in traduzione italiana per i tipi della «Società Editrice il Mulino», col titolo «Una comunità del Mezzogiorno».
Diremo subito, ad esplicazione di quanto abbiamo sopra accennato, che il metodo seguito dall’Autore, a differenza degli studi analitici e descrittivi elaborati scarsamente o molto manchevolmente, di cui abbonda la moderna letteratura sociologica, utilizza uno schema teorico preesistente alla indagine empirica. Schema che Banfield si propone appunto di confermare; con notevole consapevolezza, d’altronde, in quanto egli fa esplicitamente notare che i suoi fini sono quelli di abbozzare e illustrare una teoria che poi altri potrà meglio verificare. Riteniamo – egli dice – che «i dati raccolti siano, nei loro limiti, sufficienti, tali per lo meno da rendere plausibile una indagine sistematica sulla base delle nostre ipotesi. Ma finché una tal verifica non venga compiuta, la nostra tesi non può avere che un semplice valore di tentativo». Da notare – per inciso – che l’Autore ha compiuto la sua verifica empirica in un paese dell’Italia meridionale (di cui si tace il nome) scelto come campione tipico per il Sud, cioè, secondo lo stesso Autore, per la Lucania, gli Abruzzi e la Calabria, per le zone interne della Campania, nonché per le zone costiere in prossimità di Catania, Messina, Palermo e Trapani.
Veniamo ora allo schema teorico, riformulando quelli che sembrano i punti fondamentali su cui poggia l’ipotesi dello studioso americano.
Il progresso economico, sociale e politico di una collettività, dipende direttamente dalla capacità di organizzazione della società stessa, cioè dal livello di interazione tra i membri del gruppo. Esiste uno stretto rapporto di interdipendenza tra capacità di organizza-[pag. 82]zione, potenziale o attuale, di un gruppo e livelli di progresso politico, economico e sociale in genere; non si può, infatti, attuare un sistema economico moderno se non si sa creare e mantenere una organizzazione fondata su basi di collaborazione e cooperazione: in altri termini, più elevato è il livello di vita che ci si propone di raggiungere, tanto più risulterà indispensabile l’organizzazione. L’incapacità di organizzarsi costituisce ugualmente un ostacolo al progresso politico: infatti proprio dalla possibilità di coordinare, in relazione a problemi di interesse pubblico, le linee di condotta di un gran numero di persone, dipende l’attuazione di forme di autogoverno. In breve, i medesimi elementi che operano positivamente nel caso di una associazione a fini economici sono altresì essenziali in associazioni a carattere politico.
I problemi sopra prospettati rivestono particolare importanza nelle così dette società sottosviluppate, nelle quali, cioè, i livelli di organizzazione di gruppo raggiungono punte molto basse relativamente a gruppi più progrediti, sicché scarsa capacità di organizzazione e sottosviluppo economico e sociale in genere, sono fenomeni interconnessi.
Solitamente si crede che le associazioni di carattere economico o politico sorgano automaticamente ovunque le condizioni tecniche e le risorse naturali lo permettano. Nel caso che la tecnica abbia raggiunto uno stadio in cui l’organizzazione degli sforzi di molti sia fonte di un effettivo progresso, si pensa ottimisticamente che, in un modo o nell’altro, compariranno i capitali e le energie organizzative e sorgeranno e si svilupperanno forme di organizzazione.
Ma tale ipotesi non è esatta perché sottovaluta l’importanza determinante delle condizioni culturali, psicologiche e morali dei membri del gruppo, cioè della cultura in senso lato del gruppo medesimo; mentre è proprio quest’ultimo fattore che condiziona la capacità e il grado di organizzazione totale di un gruppo e quindi il grado di organizzazione delle singole attività entro lo stesso. Naturalmente, non è in base al numero e alle dimensioni delle organizzazioni operanti in una data cultura che se ne può valutare la capacità di sviluppare e mantenere forme associative: anzi è possibile che un’organizzazione, pur comprendendo un numero considerevole di membri ed essendo estesa a un vasto territorio, non sia in realtà affatto vitale.
Inoltre, nel valutare la capacità della cultura in rapporto al mantenimento di forme organizzate, è necessario tenere conto non soltanto del numero e delle dimensioni delle organizzazioni che essa comprende, ma anche della loro efficienza, cioè del grado di conversione dei valori utilizzati in quelli realizzati. Nel far ciò si deve considerare quanto richiedano gli scopi e i valori da perseguire: infatti è ovviamente impresa minore riuscire a raggiungere uno scopo che presenti poche difficoltà, che uno il quale comporti difficoltà considerevoli.[pag. 83]
Se è facile comprendere come la cultura possa costituire il fattore limitativo che determina la misura e il tipo d’organizzazione, e perciò il progresso nelle aree sottosviluppate del mondo, non appaiono d’altra parte altrettanto evidenti le concrete incompatibilità tra particolari culture e i loro aspetti, e particolari forme o livelli di organizzazione. Anche entro l’ambito della nostra società molto poco si conosce su questi problemi: entro il nostro sistema culturale, ad esempio, qual è il significato dei diversi attributi di classe, etnici o sessuali, in rapporto ai problemi di organizzazione?
Si prospetta pertanto la necessità di uno studio delle condizioni culturali, psicologiche e morali che stanno alla base dell’organizzazione totale di un gruppo come pure del livello organizzativo delle singole attività del gruppo medesimo. Tale studio si può svolgere solo realizzando un esame dettagliato dei fattori che ostacolano forme di azione comune nel sistema culturale proprio del contesto sociale che si analizza.
Coerente con queste premesse, Banfield spiega, quindi, l’estrema povertà e arretratezza del paese campione, in massima parte con l’incapacità degli abitanti di agire insieme per il bene comune; o, più in generale, per qualsivoglia fine che trascenda l’interesse materiale immediato del nucleo familiare. Tale incapacità di organizzarsi attivamente al di là della ristretta cerchia familiare deriva da un particolare tipo di cultura che l’Autore individua, cioè dall’ethos di quel fenomeno che egli chiama familismo amorale. Tale fenomeno sarebbe prodotto da tre fattori operanti congiuntamente: l’alta mortalità, un determinato assetto fondiario, e l’inesistenza dell’istituto della famiglia estesa cioè di tipo patriarcale; nel senso che essi determinerebbero una regola generale di comportamento dei membri del gruppo: quella di massimizzare i vantaggi materiali e immediati del nucleo familiare e supporre che gli altri si comportino allo stesso modo.
L’Autore mette in luce e descrive nel corso dello studio i tipi di comportamento prevalenti nel gruppo sociale considerato e rileva una coincidenza dei fatti con i dati teorici sopra riportati; ciò non significa, come egli stesso afferma, che tale coincidenza sia una prova della teoria stessa; essa dimostra però che la teoria può spiegare, nel senso di renderlo comprensibile e prevedibile, gran parte del comportamento dei membri del gruppo senza che alcuno dei fatti di cui si sia a conoscenza la contraddica. La descrizione dei tipi di comportamento è riassunta nei seguenti punti:
1 – In una società di familisti amorali, nessuno andrà oltre l’interesse del gruppo o della comunità, a meno che ciò non torni a suo vantaggio.
2 – In una società di familisti amorali soltanto i funzionari si occupano della cosa pubblica, perché essi soli vengono pagati [pag. 84] per questo. Che un privato cittadino si interessi seriamente a un problema pubblico è considerato anormale e perfino sconveniente.
3 – In una società di familisti amorali mancherà qualsiasi forma di controllo dell’attività dei pubblici ufficiali, poiché questo compito spetta solo ai superiori gerarchici dei funzionari in questione.
4 – In una società di familisti amorali, sarà molto difficile dare vita, e mantenere in vita, forme di organizzazione (cioè, attività organizzate in base a esplicito accordo). I fattori che inducono la gente a prestare le loro energie in organizzazioni sono in larga misura atteggiamenti di altruismo (come per esempio, può essere l’identificazione dell’individuo con gli scopi dell’organizzazione), e spesso non di ordine materiale (per esempio, un interesse intrinseco nell’attività per dar prova delle proprie capacità). È inoltre essenziale per la riuscita di una organizzazione che i membri abbiano fiducia reciproca e spirito di lealtà verso l’organizzazione stessa; e inoltre, che vengano fatti piccoli e talvolta grandi sacrifici, per il bene dell’organizzazione.
5 – In una società di familisti amorali, coloro che ricoprono cariche pubbliche, non identificandosi in alcun modo con l’organismo a cui appartengono, si daranno da fare quel tanto che basti per conservare il posto che occupano o (nei casi in cui ciò sia possibile), per ottenere promozioni. E d’altra parte, le persone istruite, i professionisti, non saranno mossi da uno spirito di vocazione o di missione. In realtà le cariche pubbliche o le conoscenze specializzate, saranno considerate da coloro che ne dispongono come armi da usare a proprio vantaggio contro gli altri.
6 – In una società di familisti amorali, si agirà in violazione della legge ogni qual volta non ci sia minaccia di punizione. Per questo motivo i cittadini non stipuleranno accordi la cui realizzazione dipenda da misure legali, a meno che non vi siano forti possibilità che la legge venga fatta rispettare, e il costo non ne sia tanto alto da rendere non conveniente l’impresa.
7 – Il familista amorale, quando riveste una carica pubblica, accetterà buste e favori, se riesce a farlo senza avere noie, ma in ogni caso, che lo faccia o no, la società dei familisti amorali non ha dubbi sulla sua disonestà.
8 – In una società di familisti amorali, i deboli sono favorevoli a un sistema in cui l’ordine sia mantenuto con la maniera forte.
9 – In una società di familisti amorali, il fatto che un individuo o un’organizzazione dichiari di agire in nome del pubblico interesse piuttosto che per fini personali, verrà considerato una frode.
10 – In una società di familisti amorali, manca qualsiasi connessione tra astratti principi politici (l’ideologia) e il comportamento concreto nei rapporti di vita quotidiani.[pag. 85]
11 – In una società di familisti amorali non ci sono capi, né buoni gregari. Nessuno prende l’iniziativa di proporre una linea di azione e persuadere gli altri a seguirla (a meno che questo non torni a suo vantaggio personale), e d’altronde se qualcuno assumesse una posizione di guida, il gruppo non lo accetterebbe come tale, per mancanza di fiducia.
12 – Il familista amorale si serve del voto per ottenere il maggior vantaggio a breve scadenza. Per quanto egli possa avere idee ben chiare su quelli che sono i suoi interessi a lunga scadenza, i suoi interessi di classe, o anche l’interesse pubblico, questi fattori non influiscono sul voto, se gli interessi materiali e immediati della famiglia sono in qualche modo coinvolti.
13 – Il familista amorale apprezza i vantaggi che possono realizzarsi per la comunità, solo se egli stesso e i suoi ne abbiano parte diretta. Egli si opporrà anzi a misure che possono essere di vantaggio agli altri senza che egli ne benefici direttamente, perché, anche se in una situazione simile la sua posizione resterebbe, in senso assoluto, immutata, egli si considera danneggiato se altri vengono a trovarsi in una condizione migliore. Così accade che misure di riconosciuto vantaggio generale suscitino le proteste di coloro che ritengono di non poterne essere beneficiati, o perlomeno non in misura sufficiente.
14 – In una società di familisti amorali l’elettore ha poca fiducia nelle promesse che vengono fatte dai partiti. Egli dà il voto in cambio di benefici ricevuti (nell’ipotesi, naturalmente, che esista la prospettiva di altri per il futuro) piuttosto che per vantaggi promessi.
15 – In una società di familisti amorali esiste la diffusa convinzione che qualunque sia il gruppo al potere, esso è corrotto e agisce nel suo interesse. Già subito dopo le elezioni la gente è certa che i neoeletti sono occupati ad arricchirsi a loro spese e non hanno alcuna intenzione di mantenere le promesse che hanno fatto. Di conseguenza, l’atteggiamento dell’elettorato è quello di chi ripaga, per mezzo del voto, non favori ma ingiustizie; se ne serve cioè come strumento di punizione.
16 – Sebbene gli elettori siano disposti a vendere i loro voti, una società di familisti amorali non è in grado di mantenere in piedi un’organizzazione di clientela politica stabile e forte. Questo è vero almeno per tre motivi: a) essendo la votazione segreta, non c’è modo di controllare che chi è stato pagato per votare in un certo modo lo faccia poi effettivamente; b) un’organizzazione di questo tipo non offre sufficienti vantaggi immediati perché qualcuno impegni in essa energie e capitali; c) come abbiamo spiegato più sopra, in ogni caso è difficile dar vita e mantenere organizzazioni di qualsiasi tipo.
17 – In una società di familisti amorali, i funzionari di partito vendono i loro servizi al miglior offerente. La loro facilità a pas-[pag. 86]sare da una parte all’altra può spiegare gli imprevedibili sbalzi nei risultati elettorali.
A tal punto, è interessante ribadire quanto lo stesso Banfield dice nell’introduzione al suo lavoro, riferendosi alla scelta del comune campione e alla validità delle interviste effettuate, che egli comunque considera altamente rappresentative per quella parte di popolazione che vive nel paese e sufficientemente rappresentativa per gli abitanti delle campagne vicine. «Riteniamo – egli afferma – che per i nostri fini, i dati raccolti siano nei loro limiti sufficienti, tali perlomeno da rendere plausibile un’indagine sistematica sulla base delle nostre ipotesi. Alcuni potranno ritenere che il familismo amorale o atteggiamenti molto simili si trovino in qualsiasi società; in quella americana non meno che in quella dell’Italia meridionale. La nostra risposta è che il familismo amorale è un modello di comportamento o una sindrome: una società che presenti alcuni degli elementi che costituiscono una sindrome differisce in modo decisivo da una che li presenti tutti insieme. Inoltre, è questione di gradi: per quanto privi di scrupoli o egoisti possano essere la maggioranza dei suoi membri, una società non si identifica con l’individualismo (o il familismo amorale) fintanto che in qualche settore di essa sussistano elementi significativi di senso civico o anche di interesse privato “illuminato”».
L’Autore conclude la sua indagine con affermazioni piuttosto pessimistiche; egli suggerisce diverse possibilità di trasformazione pianificata della cultura del gruppo in esame e afferma che l’atteggiamento insito nel familismo amorale deve venire modificato in almeno tre aspetti, se si vuole realizzare un sistema di organizzazione e quindi un progresso economico e politico:
1) L’individuo deve definire il proprio interesse, l’interesse della sua famiglia, in termini meno ristretti di quanto non comporti il suo vantaggio materiale immediato. Non si richiede che diventi meno attento ai bisogni della famiglia o meno egoista, ma, almeno per una parte del suo tempo, egli deve perseguire un interesse «più ampio».
2) Almeno un ristretto numero di persone deve avere la capacità morale di agire in qualità di leaders. Ciò non vuol dire che debbano comportarsi in modo disinteressato: possono svolgere la funzione di leader semplicemente perché vengono pagati per questo. Ma sia che offrano le loro capacità gratuitamente, o le vendano, debbono essere in grado di agire in modo responsabile entro ruoli organizzativi e creare ed ispirare un senso morale nella organizzazione.
3) Il corpo elettorale e in generale «il pubblico» non debbono distruggere l’organizzazione gratuitamente o per mero disprezzo o invidia: essi debbono cioè essere disposti ad accettarla quando essa non interferisce con i loro affari.
Nel tentativo di dare luogo a queste considerazioni preliminari, i pianificatori dispongono di due possibili alternative. Una consistente [pag. 87] nell’eliminare i fattori negativi dell’ethos del familismo amorale e dare vita, invece, a condizioni tali da produrre «naturalmente» – cioè senza ulteriori interventi dei pianificatori stessi – un ethos compatibile con gli elementi essenziali dello sviluppo economico e politico. L’altra consistente in un intervento non sulla situazione di fondo ma sugli attori stessi mediante la tecnica «tradizionale» dell’educazione.
Come abbiamo detto, le conclusioni dell’Autore relative a queste due alternative di pianificazione in funzione di un effettivo sviluppo organizzativo, e quindi economico e politico del gruppo, sono quasi del tutto negative; «nelle condizioni più favorevoli – egli afferma – ci vorranno due, tre o quattro generazioni prima che i legami sociali che per un secolo o più sono rimasti come inariditi, vengano ristabiliti e rinvigoriti naturalmente»: un effettivo progresso economico e sociale e quindi, ad esempio, un elevato livello di organizzazione dell’attività economica di gruppo, dipende infatti direttamente dalla capacità di organizzazione del gruppo stesso.
In questa sede, non si vuole ovviamente tentare una valutazione del lavoro del Banfield, e, soprattutto, delle ipotesi teoriche che ne stanno alla base. Tali ipotesi, comunque, nonché alcune conclusioni che da esse l’Autore trae, non sembrano del tutto appropriate. Nelle stesse, infatti, si riscontra una lacuna piuttosto grave: la mancata distinzione tra comportamenti sociali qualificati strutturalmente secondo schemi economici e comportamenti sociali aventi natura non economica.
Da ciò discende che, in relazione – ad esempio – al sottosviluppo, non può parlarsi di generica capacità di organizzazione (quest’ultimo termine peraltro dovrebbe essere più correttamente esplicato), bensì solo di organizzazione qualificata secondo particolari schemi di comportamento, che possono essere economici ma possono anche non esserlo; per cui, capacità di organizzazione e livelli di progresso economico o politico, non possono dirsi fenomeni sempre corrispondenti.
Queste precisazioni spostano, ovviamente, tutte le prospettive di una indagine quale quella condotta dal Banfield, anche per quanto si riferisce al concetto di «familismo amorale», che individua in realtà un fenomeno caratterizzabile in termini ben diversi da quelli proposti dal nostro Autore, sia sul piano teorico sia in rapporto alla effettiva struttura dei concreti dati sociali.
Tali critiche, comunque, nulla tolgono alla serietà scientifica dello studio del Banfield e alla utilità del medesimo. Esso infatti costituisce una tappa di un cammino appena iniziato e la circostanza che già possa essere superato da ipotesi teoriche di carattere più generale, non fa che confermarne l’interesse, anche se porta necessariamente a un suo ridimensionamento in sede scientifica.[pag. 88]