Convegno-dibattito “Punti franchi, porti franchi, zona franca in Sardegna”
Intervento di Giulio Bolacchi
(Punti franchi, porti franchi, zona franca in Sardegna, Atti del Convegno-dibattito, Tea, Cagliari, 1984)
Tenterò di impostare un discorso che sia il più generale possibile e che costituisca, in qualche modo, una giustificazione teorica, oltre che pratica, dell’istituto della zona franca. Mi è parso, infatti, che gli interventi che fino ad ora si sono svolti contengano da un lato elementi di accettazione, dall’altro lato, elementi che manifestano alcune perplessità, o comunque una qualche incomprensione, o non completa percezione, della realtà dei fenomeni economici che attualmente stiamo vivendo. Lo stesso intervento dell’on. Garzia, che ho ascoltato con attenzione, esprime questa duplicità di prospettive, perché se da un lato l’on. Garzia riconosce, come mi è parso, che la zona franca di produzione sia un elemento da considerare ormai acquisito in termini di accumulazione endogena, dall’altro lato aggiunge un ampliamento di questo concetto, inserendo un elemento che si dovrebbe realizzare nell’ambito del settore distributivo. Non mi è chiaro come si dovrebbe realizzare, ma comunque è un elemento di ambiguità che amplia un concetto che deve essere ridotto ai suoi termini essenziali; perché se spostiamo il dibattito su un piano più allargato, le posizioni già abbastanza diversificate rischiano di radicalizzarsi. E allora occorre partire dalle istanze effettive e reali. Non è tanto un problema di tempi lunghi o tempi brevi (forse questo bisognerebbe sottolinearlo), ma un problema di mezzi adeguati o inadeguati; e per stabilire quali siano i mezzi adeguati o no, una volta che si accetti l’obiettivo dell’accumulazione endogena, occorre motivare con rigore e con precisione le istanze e le proposte.
Il problema della zona franca sorge in Sardegna sulle rovine della politica di interventi che ha caratterizzato l’ultimo trentennio. Qui non si tratta di colpevolizzare nessuno: i problemi maturano lentamente e trent’anni fa si potevano fare solo gli interventi che sono stati fatti; questo è il dato dal quale dobbiamo partire, perché altrimenti si farebbe demagogia sterile. Trent’anni fa molte cose non si conoscevano e molte esperienze si dovevano fare. Una volta fatte queste esperienze ci si è accorti (anche perché con le esperienze sono maturati i ripensamenti e le analisi teoriche sulle esperienze) che c’erano elementi negativi, dei quali ora dobbiamo prendere atto, in una prospettiva di intersoggettività scientifica, su un piano di ricerca e di analisi, al di fuori di qualsiasi presa dì posizione ideologica o partitica.
La politica che si è svolta fino ad oggi, la politica di interventi di sostegno della industrializzazione, è stata fondata sulla logica degli incentivi (economie esterne monetarie e reali), che era l’unica logica disponibile, l’unica logica teorizzata nell’ambito delle politiche economiche. Tant’è che se noi andiamo a vedere le problematiche del passaggio dal sottosviluppo allo sviluppo, troviamo che tutti gli autori che hanno approfondito questi problemi ripropongono i temi delle economie esterne, ripropongono i temi degli incentivi monetari e degli incentivi reali realizzati in Sardegna. Noi adesso, dopo trent’anni di politiche di incentivi monetari e reali, di politiche di creazione di economie esterne, di flussi di capitali esterni che si sono riversati sulla Sardegna, ci troviamo in una posizione molto vicina a quella di partenza, non in termini di realizzazioni concrete, ma in termini di possibilità di accumulazione endogena. È un discorso diverso, perché bisogna distinguere tra reddito procapite e accumulazione. Il reddito procapite indubbiamente in Sardegna è aumentato, tutti lo possono constatare; i livelli di vita sono migliorati. Ma se noi confondessimo il reddito procapite con l’accumulazione endogena faremmo un grosso errore. Il fatto che il reddito procapite sia aumentato, che i livelli di vita siano aumentati, non significa che la Sardegna sia riuscita a decollare sul piano dello sviluppo. Questo è il problema fondamentale. Infatti, il reddito che attualmente noi possiamo riscontrare in Sardegna si regge, e continua a reggersi, su flussi dì capitali esterni; se questi dovessero venir meno, il reddito si ridurrebbe e ci ritroveremmo ai livelli iniziali. Questo significa che la Sardegna, da sola, non è riuscita ad accumulare; in termini più specifici, significa che non è riuscita a realizzare nella propria area economica un processo di verticalizzazione dal lato della produzione.
Il problema della verticalizzazione, della creazione di una struttura generalizzata di interdipendenze dal lato della produzione, è un problema centrale, perché se non si realizza una verticalizzazione dal lato della produzione, cioè se non si attivano nell’area economica industrie specifiche adeguate all’accumulazione, non si ottiene accumulazione endogena. Si possono attivare altre industrie con enormi flussi di investimenti, come è successo in Sardegna con le industrie che sono state attivate nei poli di sviluppo, ma non si attiva accumulazione endogena. A questo punto possiamo dire, dopo trent’anni (non lo potevamo dire prima) che il problema è che le industrie attivate nei poli di sviluppo (vedi petrolchimica, chimica) non hanno determinato verticalizzazione, né in avanti, né all’indietro. La petrolchimica, per esempio, non può attivare processi di verticalizzazione all’indietro, che sono quelli che consentono di realizzare un processo di accumulazione endogena. Quindi, avere investito miliardi in petrolchimica significa aver ridotto il problema dell’occupazione, ma non aver in alcun modo inciso sul problema della accumulazione endogena, con riferimento all’intera area regionale sarda.
Giunti a questo punto, il problema che noi dobbiamo porci, al di là di tutti gli altri problemi specifici riguardanti i vari settori produttivi, è che dall’industria bisogna comunque partire. Molti dicono: ma c’è l’agricoltura, il terziario, il turismo. D’accordo, ma a parte il fatto che si potrebbe discutere dell’importanza relativa di ciascuno di questi settori nei confronti degli altri, tutti concordano nel affermare che l’elemento portante, l’elemento centrale dello sviluppo è l’industria. Allo stato attuale non possiamo non accettare questo punto di partenza. Quindi l’industria diventa l’elemento centrale dei possibili interventi futuri. Ma quale industria? Non certo l’industria “indiscriminata”; ovvero non tutta industria, ma quel tipo di industria che determini effetti diffusivi, cioè quel tipo di industria che riesca ad attivare altra industria.
L’industria non è tutta attivatrice di industria, questo è il punto centrale. Ciò che conta per determinare lo sviluppo economico endogeno è la individuazione delle industrie attivatrici di industrie. Su questo punto non c’è ancora consapevolezza. Fino ad oggi, ripeto, non ci poteva essere consapevolezza, perché queste sono conclusioni che solo oggi l’analisi economica è riuscita a individuare; su questo punto bisogna essere molto espliciti. Ora se questo è vero, se bisogna privilegiare solo l’industria attivatrice di industria, solo l’industria che determina verticalizzazione all’indietro, allora bisogna cercare di fare un discorso molto specifico per individuare quali sono queste possibili industrie che possono attivare accumulazione endogena e, attivando accumulazione endogena, che possono attivare occupazione. Non possiamo parlare di occupazione come obiettivo primario; l’occupazione deriva direttamente dalla attivazione di un processo industriale, sennò come è possibile sostenere l’occupazione? Se è sostenuta da flussi di capitali esterni, si attiva e si fa in modo che permanga una situazione di dipendenza.
A questo punto, di fronte all’organo che gestisce la politica regionale, si pongono alcuni elementi di riflessione concreta: accettato il problema della verticalizzazione all’indietro, accettato il problema della dipendenza dal punto di vista della produzione, quali strumenti adoperare al fine di determinare in Sardegna quella inversione che possa finalmente consentire alla nostra area economica il passaggio allo sviluppo che sinora non ha fatto? Quali sono gli strumenti? Dobbiamo continuare a servirci dei vecchi strumenti, ovvero le economie esterne monetarie dirette, quali quelle che sino ad oggi la Regione ha utilizzato, cioè incentivi monetari diretti (a parte le incentivazioni reali introdotte con la creazione delle infrastrutture che sono disponibili e delle quali dovremo tener conto per realizzare il futuro processo di industrializzazione)? Gli incentivi monetari diretti, per una serie di motivi sui quali ci soffermiamo nel nostro libro sulla zona franca, non si sono rivelati positivi in funzione dello sviluppo, presentano una serie di difficoltà. D’altra parte, la dottrina e le analisi più recenti hanno mostrato la inadeguatezza degli incentivi monetari rispetto alla attivazione dello sviluppo. Escludendo gli incentivi monetari diretti, non restano che quelli che noi abbiamo chiamato gli incentivi monetari indiretti, cioè le franchigie fiscali. Attualmente le due opzioni nel campo della politica economica sono, in termine di interventi che attivano la verticalizzazione industriale, la scelta dell’incentivo monetario diretto e la scelta dell’incentivo monetario indiretto (quello legato alla esenzione fiscale o alla franchigia doganale e fiscale).
È chiaro che poi il discorso si può ampliare o restringere, ma l’importante è essere d’accordo sui punti chiave. Sul problema della zona franca ho sentito anche stamattina il solito discorso. Ma la zona franca non è l’unico problema, perché ce ne sono altri, e non dobbiamo pensare che la zona franca sia una panacea. Il problema è semplice: la zona franca è uno degli strumenti di intervento; o vogliamo fare una politica di incentivazioni monetarie (prescindendo dalle economie esterne reali, ovviamente, che restano) o vogliamo fare una politica di incentivazioni monetarie indirette, perché l’area economica sarda risente purtroppo di un differenziale di produttività molto elevato rispetto al tasso di produttività delle aree economiche sviluppate e questo differenziale di produttività non può essere superato in alcun altro modo. Non c’è né politica dei trasporti, né politica dell’energia, né politica del Mezzogiorno, non c’è niente che riesca a superare questo differenziale di produttività. Il problema dei trasporti diventa, in quest’ottica, un problema mediato (non marginale, ma mediato); il problema dell’energia diventa un problema mediato, cioè un problema che deve essere risolto, ma che non è strutturale, non è il problema di fondo che consente di compiere quel salto reale verso lo sviluppo.
Quindi distinguiamo tra analisi di tipo non strutturale, legate alla funzionalità concreta e specifica delle aree economiche, e analisi strutturali. Noi dobbiamo operare nell’area economica sarda una trasformazione di struttura. Non è tanto un problema di energia o un problema di continuità territoriale: è un problema di modificazione radicale della nostra struttura economica. Per ottenere questo cambiamento, dobbiamo necessariamente operare con variabili che siano variabili di struttura, cioè che siano variabili volte a modificare la funzione di produzione, a modificare realmente il contesto entro cui la economia si realizza. La zona franca è uno degli strumenti (diciamo il più moderno o, perlomeno, quello che non è stato fino ad ora realizzato) in funzione della eliminazione del differenziale di produttività. Dire questo non significa dire, lo sottolineo, che la zona franca sia il solo elemento: la zona franca è un elemento strutturale, il quale deve essere necessariamente accompagnato da tutti gli altri elementi funzionali connessi ai vari e specifici momenti in cui la realtà economica si definisce in termini più analitici.
Il problema della zona franca in termini di sviluppo, quindi, è il problema della zona franca mirata alla produzione, perché se noi accettiamo che la produzione abbia il maggiore impatto, l’impatto sostanziale e basilare in termini di accumulazione endogena, non possiamo non orientare gli strumenti di politica economica alla produzione. Non dico che non si possa fare tutto quello che si vuole fare; dico che sul piano della politica economica bisogna massimizzare i risultati, ovvero cercare di minimizzare i costi, e quindi usare nel modo più razionale le scarse risorse di cui disponiamo. Se avessimo quantità esuberanti di risorse, potremmo applicare la zona franca in tutti i settori possibili. Poiché abbiamo risorse scarse e dobbiamo assumere obiettivi mirati di sviluppo economico, e poiché sappiamo che lo sviluppo economico si ottiene solo partendo dalla produzione, ecco che la zona franca deve essere necessariamente mirata alla produzione; altrimenti faremo un discorso troppo allargato che non ci consentirebbe di acquisire quei risultati di cui abbiamo bisogno. Dal fatto che la zona franca debba essere orientata alla produzione, discende anche la necessità della individuazione di zone territoriali nei quali aggregare le localizzazioni industriali, perché bisogna anche pensare che è necessario realizzare una politica del territorio. Abbiamo già infrastrutture reali più che sufficienti, prive di localizzazioni industriali; e allora perché non utilizzarle in funzione di queste nuove localizzazioni? Di qui discende anche un elemento positivo a favore della proposta della Giunta regionale volta alla istituzione di punti franchi o di aree franche.
Penso che il discorso abbia in questo modo una sua consequenzialità logica e auspico che questa consequenzialità venga riconosciuta e in qualche modo recepita. Dico ancora, per concludere, che gli studi che dimostrano questa consequenzialità, quindi che dimostrano in senso stretto l’esigenza di tutti questi passaggi, sono nelle loro linee essenziali già stati fatti e quindi si tratta, a questo punto, una volta accettati questi elementi, di passare alla fase di realizzazione concreta o comunque di proposizione politica il più possibile concreta.